Una posizione che ben spiega la collaborazione in atto tra il gruppo di lavoro del CNR di cui Andrea fa parte e la Fondazione One Ocean, l’associazione presieduta dalla principessa Zahra Aga Kahn, diretta dal Commodoro dello Yacht Club Costa Smeralda Riccardo Bonadeo e sostenuta da Audi, che nasce proprio con lo scopo di promuovere la salvaguardia degli oceani e il rispetto per l’ambiente marino. Fondata due anni fa, la Fondazione ha prodotto e promulga la Charta Smeralda, un decalogo pensato per sensibilizzare l’opinione pubblica, gli operatori e gli stakeholder, dove si forniscono indicazioni pratiche su come mutare il proprio comportamento ad esempio, minimizzando l’uso di risorse come l’acqua potabile o l’energia elettrica, proteggendo gli habitat naturali o, ancora, eliminando l’uso delle plastiche e delle microplastiche.
«Non sono qui per demonizzare l’uso della plastica - spiega il ricercatore durante la presentazione - che a tutt’oggi è ancora utile e pratica in molti casi. Sono qui per raccontare come essa, che perdura per moltissimo tempo senza essere attaccata da alcun organismo, se dispersa nell’ambiente finisca con l’interagire con gli ecosistemi marini». Il problema, insomma, siamo noi, che gettiamo via i rifiuti senza curarci del loro destino, illudendoci che finiscano dispersi per sempre, che svaniscano. Non è così: Andrea mostra un’immagine della spiaggia vicina alla stazione del CNR al Polo Nord. C’è plastica anche lì, dove non l’ha portata nessuno ma è arrivata da sola, trasportata dalle correnti.
Il ricercatore del CNR e i suoi colleghi operano scegliendo delle spiagge dove la plastica si accumula, esaminano e catalogano ciò che trovano per ricostruirne la provenienza e provare a comprendere le cattive pratiche che ne hanno causato la dispersione. Come investigatori, lavorano per scoprire le origini di un problema crescente, quindi proporre delle soluzioni sia pratiche sia normative.
Parte delle loro ricerche riguardano poi l’interazione tra animali marini e plastiche, che varia a seconda del colore e della forma (le tartarughe, ad esempio, scambiano le buste per meduse e quindi per cibo), soffermandosi anche sullo studio degli effetti dei diversi additivi associati a ciascun tipo di plastica come ad esempio gli ftalati: questi hanno la proprietà di rendere flessibili e resistenti le pellicole, ma risultano anche molto contaminanti e, se assorbiti dall’organismo umano, causano sterilità nell’uomo.
Durante la presentazione apprendiamo anche nella spiaggia di Is Arenas, nel tratto centrale della costa Ovest della Sardegna (in provincia di Oristano), in dieci metri quadrati di sabbia sono stati trovati 23mila pezzi di plastica, molti dei quali estremamente piccoli. A questo punto del racconto Andrea De Lucia fa una breve pausa, forse perché sa che questa informazione richiede qualche istante per essere processata e compresa, quindi continua spiegando che «le microplastiche sono uno dei problemi principali: si tratta di pezzi con dimensioni tra 330 micrometri e 5 millimetri, in gran parte generati dall’interazione tra spray marino e raggi UV che frammentano pezzi più grandi, e in parte - continua - dispersi accidentalmente sotto forma di raw pallets, ovvero di piccoli pezzi di materiale plastico ancora da lavorare che vengono prodotti con queste dimensioni perché così sono più facili da trasportare».
Il messaggio è chiaro, con il passare del tempo la plastica non “svanisce”, ma si frammenta sempre di più, scompare alla vista mentre in realtà invade l’ambiente. Soprattutto le acque, dove resta in sospensione. «Nell’ambito della nostra ricerca abbiamo analizzato campioni di acqua marina in diverse località - racconta ancora Andrea De Lucia - e oltre alla costante presenza delle microplastiche è emerso anche che, in alcuni siti specifici del Mar Mediterraneo, queste hanno già raggiunto la stessa densità del plancton».
Non solo: grazie ad alcune immagini ottenuto utilizzando un microscopio a fluorescenza, il ricercatore del CNR ci mostra come gli organismi che costituiscono il plancton – e che sono al primissimo livello di una catena alimentare al cui vertice c’è l’uomo - abbiano già essi stessi iniziato a inglobare piccolissimi pezzi di plastica «che così finiscono anche nei pesci che ritroviamo sulle nostre tavole». Sono campanelli d’allarme, conclude Andrea De Lucia, che ci dicono due cose: «La prima è che, se continuiamo di questo passo, tra venti o trent’anni ci potrebbe essere in mare più plastica che vita». E la seconda - forse ancora più importante - è che per evitare tutto questo dobbiamo «muoverci subito, tutti insieme, per cambiare da subito le nostre abitudini ed eliminare i comportamenti inquinanti».